Dic 292023
 

Come si determinano i due ambiti?
Dal punto di vista federalista (parlo della ideologia-teoria-pensiero politico-filosofia federalista) per come l’ho capito io, questo viene determinato “contrattualmente”.
Io prima di cedere la mia sovranità personale, territoriale, eccettera, “contratto” i termini di questa cessione. L’avvertenza, se non si vuole divenire schiavi, è di riservare per sè la parte maggiore di queste sovranità.
Nella pratica questo non è molto semplice, e non spiega come si possano risolvere le comunque possibili divergenze di opinione che possono anche divenire conflitto esplicito.
Se non si chiarisce e specifica il metodo, allora il metodo sarà quello di natura non regolamentato, dove tutto è legittimo.
Anche nella mia prospettiva democratica radicale, diciamo democratica diretta, tutto parte da un contratto. Un contratto che stringo con chiunque accetti l’idea che abbiamo entrambi diritto a decidere delle sorti comuni. Faccio notare che questo significa anche che abbiamo entrambi diritto a decidere insieme di cosa sia “comune”.
Bene comune, sorti comuni, sono espressioni che non risolvono la soggettività del concetto, ma solo esprimono il fatto che esiste una idea di bene comune, o sorte comune.
Nella mia concezione radicale di democrazia, anche cosa è o non è bene comune (o sorte comune), lo decidiamo insieme.

Sorvolo sul rischio che questo tipo di contratto comporta. Il rischio della democrazia.
Qui mi interessa rispondere alla domanda “come si definiscono gli ambiti regionali e federali?”
Questo comprende problemi analoghi, come la differenza tra privato e pubblico, tra privacy e trasparenza e altri ancora.
La risposta alla domanda è che quando qualcuno ritiene che un ambito della propria sfera (individuale, gruppale, regionale,…) sia da sottrarre al giudizio generale e da riservare invece ad un suo sottoambito (individuale, gruppale, regionale…), allora lo dichiara.
E si deve decidere su questo.
Ma chi decide?
La decisione non può che essere di competenza del livello generale.
Se la decisione del livello generale è contraria alla volontà di quella sfera (individuale, gruppale, regionale…) si configura una rottura dei termini del contratto di cui sopra.
Quindi si starà di fronte a un conflitto.
La democrazia, come non garantisce la presa di decisioni sempre soddisfacenti, similmente non può garantire la soluzione dei conflitti.
In entrambi i casi c’è solo la speranza che se tutti sono coinvolti e responsabili delle decisioni, i risultati siano i migliori possibili. Le altre opzioni non-democratiche, non solo anche esse non garantiscono nulla, ma anzi, incrementano la probabilità di un più alto tasso di insoddisfazione e conflittualità.

Dic 182023
 

Confesso: non sono comunista. E neanche fascista. E neanche anarchico.
Confesso che ho detto tre bugie.
Sono un poco comunista. Il comunismo mi piace per questa idea che il proletariato dovrebbe avere il potere. Ammesso che il proletariato sia qualcosa vicino al concetto di “popolo”, cioè di intera comunià.
Sono un poco anche fascista. È stata la mia prima idea politica. Mi piaceva il concetto di ordine, di precisione dei compiti e doveri. Mi piaceva l’idea di responsabilità individuale, di meritocrazia.
Tutte verità più o meno parzialmente applicabili a comunismo e fascismo.
Ma sono anche piuttosto anarchico. Se non che bisogna fare i conti con l’idea che anarchia significhi confusione. Oppure totale libertà di fare quello che ci pare.
La libertà di scegliere dovrebbe essere, e in qualche modo è, totale. Vero.
Almeno tra le varie possibilità (le condizioni date) sono libero di fare, fottendomene delle eventuali conseguenze per gli altri o anche di usare gli altri. Una idea vicina all’arbitrio. Tuttavia è così.
Io invece scelgo diversamente. Scelgo di inserire la varibile “altro da me”, anche pensando al loro benessere.
Può sembrare ridicolo. E che ne so io del benessere dell’altro? Il “fai all’altro” ( o meglio non fare all’altro) ciò che vorresti fosse fatto o non fatto, non mi dice quale sia il reale benessere dell’altro. Me lo dovrebbe dire lui. Dire.
Esprimere.
Il diritto ad esprimere
Io posso non sapere esattamente come, attraverso quali vie, ma la comunicazione dipende anche da chi ascolta. Per questo l’ascolto, o più in particolare, il rispetto dell’altro (idealmente come fosse me stesso), è una categoria politica.
Andrebbe ricercata.
Questo è, per me, “Scelgo Io!”. Il tentativo di costruire una organizzazione politica fondata comprendendo quella categoria.
L’isegoria, la chiamo. Generalizzando il significato di “pari diritto di parola”, a “pari di dirtto di ascolto”, e poi anche a “pari diritto di espressione della volontà”, e “pari diritto ad agire”. Sono tutte forme di espressione, di comunicazione. Chiamatela come volete, si tratta del pari diritto di accesso ai canali attraverso cui si esercita il potere.
E a-narchia, non può significare senza “potere”, come ahimè circola in giro. Il potere è il punto.
Esso esiste. Noi stessi siamo una qualche forma di accumulo di potere.
Il processo di accumulazione del potere è un processo che esso stesso genera nuovo potere o nuove possibilità di uso del potere.
Cosa farne, come concretamente usarlo, chi ha concretamente più o meno potere. Sono le domande.
Il potere, è il punto.
Se devo affibbiarmi una ideologia mi affibbio quella di democratico. Come tale, l’idea della democrazia non può che essere federalista. Non tutti i federalismi sono democratici, ma la democrazia se vuole essere tale, deve anche essere federalista. C’è un patto al fondo di ogni democrazia.
Un patto che è esplicitato spesso in forma di statuti, o costituzioni, ma che di fatto dovrebbe essere un patto individualmente ed esplicitamente accettato dai membri della comunità/federazione.
Lo stesso vale per il sovranismo. Si può essere sovranisti senza essere democratici. Ma se sei democratico, non puoi che essere sovranista. Non c’è democrazia senza sovranità.
Ci sono organizzazioni democratiche che sono così? Federaliste e Sovraniste?
Io ne conosco una sola.
Basate su un contratto, esplicito.
Che pratichino la sovranità individuale nel governo della organizzazione stessa, oltre a predicarla nel governo là fuori.
Questo presupporrebbe anche almeno una discussione sulle forme del potere.
Qui dico solo: il potere è uno. Le sue forme molteplici.

Set 062014
 

Al livello politico delle nostre istituzioni (da quelle locali a quelle generali più o meno istituzionali), la vera democrazia (la democrazia diretta) è impraticabile, oggi.
Si può lottare per cercare di limitare i danni, ma non molto di più.

Però si può pensare di praticare la democrazia vera dentro una organizzazione che vuole il recupero di tutte le sovranità, e quindi la autodeterminazione, la fine della schiavitù, e quindi un giorno una vera democrazia anche per l’autogoverno delle varie comunità  di cui siamo membri.
Si può o no?
Se si può, allora  io posso fare attività “politica”.
Altrimenti preferisco fare altre cose.

Feb 212013
 

La nostra “democrazia” non so perché dovrebbe ancora chiamarsi così.
La nostra è ormai una finta democrazia. Dal 1946 in poi il sistema democratico italiano è andato progressivamente degenerando. La politica si è prima professionalizzata. Poi si è commercializzata, e personalizzata. E si è via via sempre più corrotta per via dei costi di questa commercializzazione/personalizzazione. Succhiando risorse al popolo, sia esplicite col sistema dei finanziamenti-rimborsi, sia implicite con le tangenti. Il sistema elettorale parimenti è andato riducendo gli spazi di partecipazione e rappresentanza. Prima il passaggio dal proporzionale al maggioritario, ancorché imperfetto. Poi con l’abolizione delle preferenze e i sistema delle liste bloccate. La sovranità del popolo è stata sempre più ridotta e soffocata. Sappiamo tutti che la trasformazione dei partiti da strutture di ascolto e raccordo tra cittadini e istituzioni (vi ricordate le case del popolo? Gli oratori? I circoli dopolavoristici? Le associazioni giovanili?) in pure macchine di raccolta di consenso elettorale ha stravolto l’impianto e il significato, per certi versi fragile, ma allora sensato, della Costituzione. Fragile, proprio perché ha permesso questa degenerazione, che potrebbe trovare soluzione solo con l’introduzione di strumenti di democrazia diretta.

Ma oltre all’impianto istituzionale e la modifica dei partiti, si è modificata la struttura della comunicazione nella società. L’informazione, che prima viaggiava attraverso molti canali paralleli oggi si è concentrata. Sia come proprietà, che come strumenti. I famosi mainstream. Il resto sono briciole. Solo internet teoricamente permetterebbe una fuga da quella gabbia. Ma anche internet è condizionata. Non fosse altro perché le teste che la percorrono sono comunque immerse nella struttura generale. E infatti internet raramente è propriamente “alternativo”, ma più che altro “amplificativo” di processi che avvengono ad altro livello.

In definitiva la modifica delle istituzioni, dei partiti e della comunicazione ha ristretto ulteriormente la piramide del potere che viene a determinarsi col sistema rappresentativo. L’illegalità istituzionalizzata aggiunge un altro tocco di ipocrisia alla situazione.
Oggi della sovranità del popolo è rimasto un unico brandello: il voto.

Elezioni-VotoOra, se questo voto viene determinato in condizioni di fortissima diseguaglianza comunicativa, cosa resta?

Noi che nasciamo dal basso. Che non abbiamo soldi, tv, giornali, che rifiutiamo gli apparentamenti strumentali. Che proprio perché nasciamo dal basso e rifiutiamo la logica della personalizzazione, dentro questo sistema siamo afoni, anzi proprio muti. Possiamo anche gridare, ma siamo chiusi nella gabbia di isolamento acustico del sistema. Che impone le sue regole. Che vincolano e obbligano anche chi vuole opporsi. Se vuoi esistere, anche come opposizione, devi sottometterti alle regole non scritte. Che dicono o hai mezzi, o non esisti. O hai la visibilità di un capo che tutti acclamano, o non esisti. O usi mezzi illegali anche tu, o non esisti. O pratichi la censura e zittisci gli avversari e usi qualsiasi mezzo immorale per diffondere la tua politica, o non esisti. O ti sottometti alle leggi del sistema, o niente.
Noi che rifiutiamo tutto questo, siamo un corpo estraneo. Non dobbiamo esistere. Siamo i “matti” chiusi nella stanza di contenzione del sistema. I meccanismi di censura implicita, ma anche esplicita, ci imbavagliano.

Non facciamo piangina, ma queste verità vanno dette. Noi continueremo, perchè sappiamo di essere nel giusto. Perché o il popolo si salva da sé, o non ha speranza. O si vince con metodi nuovi, o chi vince è in realtà sempre il nemico. Perché vincono i metodi del nemico.

Chi pensa che la presa del palazzo d’inverno, possa giustificare le mille incongruenze e incoerenze, perché quella è una precondizione che condurrà poi a un mondo migliore, si illude.
Sempre, nella storia, quello si è tradotto nel semplice cambiamento delle facce di chi sta ai vertici del potere.  Non in un cambiamento della struttura piramidale del potere.

I fini non giustificano i mezzi. I mezzi determinano invece la qualità del risultato finale.

O costruiamo democrazia vera da subito, o la presa del palazzo d’inverno ha un altissimo rischio che si risolva in un assorbimento e travisamento e, alla fine, strumentalizzazioni delle spinte positive.
Per questo noi vogliamo che i rappresentanti eletti da subito siano puri strumenti della sovranità popolare. Per questo noi costruiamo e pratichiamo democrazia diretta da subito. Prima di tutto al nostro interno.

Certo, è molto più difficile. Lo sappiamo benissimo. Ma la strada apparentemente più breve non conduce alla meta. Te ne allontana. Ritarda il momento in cui si percorrerà la strada giusta.

Giu 192012
 

Mi è capitato di partecipare a una “cena politica”, (che forse descriverò più dettagliatamente in altro articolo) dove a un certo punto l’anfitrione, nel corso dell’inevitabile (e per altro istruttiva) concione tenuta agli invitati in fase digestiva, ha espresso qualcosa di simile alla seguente affermazione: “La democrazia popolare (alias democrazia diretta) ha dimostrato il suo fallimento fin da subito ai tempi di Atene, quando un tribunale popolare di 500 persone ha condannato a morte Socrate”.

Non era il caso di commentare in quella sede, dove i cervelli dei presenti erano invitati a girare al minimo e al più dedicati a blandire l’auto-proponente lider maximo in pectore di un partito che spero non vedrà mai la luce. Ma l’affermazione, che per il suddetto anfitrione assumeva il valore di pietra tombale per la democrazia diretta (e direi per la democrazia tout-court) che non è nuova, merita una riflessione attenta e una risposta non elusiva. Anche perchè talvolta mette anche in imbarazzo certi sostenitori non accorti della democrazia diretta.

Non discuterò delle vere o presunte ragioni della condanna di Socrate. Per altro a noi (o almeno a me) conosciute solo attraverso la famosa cronaca molto probabilmente alterata che ne dà Platone, e quella di Senofonte. Accetto anche il presupposto (non proprio corretto) che quello che condannò Socrate fosse veramente un governo democratico.

Accettando questa visione da “luogo comune”, comprensiva del fatto che Socrate fosse un sostenitore dell’aristocrazia, ci sono in quella affermazione un paio di errori di fondo, che a mio modesto parere, allora avrebbe commesso, ebbene sì, anche lo stesso Socrate nel voler così dimostrare la fragilità della democrazia. Oltre che, naturalmente, tutti quelli che a questo scopo usano il dramma della vicenda di Socrate.

Il primo errore è ritenere che la democrazia diretta fondi la sua legittimità, o la sua primàzia su altri sistemi di governo, sull’idea che sia un metodo che conduca sempre alle scelte migliori o più giuste. E quindi se da essa ne derivano scelte cattive o ingiuste si dimostra la sua fallacità.
Non è così.
QUALSIASI sistema di governo può condurre a scelte che possiamo ritenere cattive. E la democrazia non è esente da questa possibilità, che è propria dell’esercizio del potere in sè. Come tale anche la democrazia, che è esercizio del potere da parte del popolo, può condurre a scelte che si rivelano cattive scelte o ingiuste (nel senso di non gradite o con le quali non concordiamo affatto). Il sovrano, che sia un popolo o un singolo può “sbagliare” prendendo decisioni anche talvolta controproducenti rispetto alla scopo che si prefigge. Ma questa non è una caratteristica della democrazia, ma dell’esercizio, in sé,  della sovranità.
Caso mai si potrebbe discutere se è più probabile avere scelte ingiuste prese da pochi o dai molti.

Il secondo errore è confondere le decisioni con le conclusioni.
Come acutamente indica Akiva Orr nel suo libro “La politica senza i politicile decisioni, non sono conclusioni. In sintesi le decisioni attengono ad una scelta fra diverse opzioni possibili. Esse derivano da una preferenza, o da una valutazione di priorità. Le decisioni sono buone e giuste o cattive e ingiuste in rapporto all’essere più o meno aderenti a ciò che noi preferiamo. Le conclusioni invece derivano da un ragionamento razionale, logico, dall’esame dei dati a disposizione.  Esse sono corrette o errate in rapporto alla evidenza dei risultati.
In generale, date certe condizioni note, non esistono due conclusioni diverse entrambe corrette. Mentre due decisioni anche opposte possono essere ritenute giuste a seconda delle priorità o dei valori che noi sosteniamo.
Per esempio un medico può concludere che se non si amputa la gamba il paziente morirà. Ciò o è errato, o è corretto. Delle due l’una. Ma due pazienti possono decidere (a fronte della conclusione del medico) uno di non amputare e morire piuttosto che non avere la gamba e l’altro di  amputare e restare vivo anche se con una sola gamba. Quale delle due decisioni è giusta? Dal punto di vista dei pazienti, entrambe.

Anche le decisioni possono però essere giudicate non solo ingiuste (rispetto ai nostri valori) ma anche errate se da quelle decisioni ci aspettiamo certe conclusioni che poi non si verificano.
Quindi l’uccisione di Socrate  è stata giusta o ingiusta a seconda del fatto che si ritenga buono o cattivo l’uccisione di un uomo. E, per me, posso dire è stata una decisione ingiusta.
Si può dire che sia stata sbagliata o corretta solo in dipendenza delle conclusioni che chi l’ha condannato pensava di poter raggiungere. (Se volevano proteggere la democrazia l’hanno effettivamente protetta? Se volevano proteggere i giovani dalla sua influenza “ateistica e blasfema” li hanno effettivamente protetti? )
Per quanto sopra la sua morte non ha concluso nulla circa la supposta fallacia della democrazia, perché bisognerebbe dimostrare che esistono governi autocratici o aristocratici che non realizzano questo tipo di ingiustizie, o almeno lo facciano in misura minore. E io credo invece è piuttosto evidente, che sia proprio il contrario.

Quindi ringrazio questi vari uomini illuminati che suppongono di sapere meglio di me cosa è il mio bene, perché per esempio dicono di conoscere meglio di me le conclusioni corrette, ma quale è il mio bene voglio deciderlo io. Voglio decidere io se amputarmi la gamba o no. Giusto o ingiusto che a loro possa sembrare. Anche perché poi, come minimo, hanno una parcella da presentarti.